Dondolo
Rockaby (1980), traduzione di Carlo Fruttero e Franco Lucentini con
Una “Donna su una sedia a dondolo”; il ritmo del movimento, del “va e vieni”, scandito dalla sua stessa voce registrata. La Voce propone alla “Donnasullasediaadondolo” (elementi inscindibili l’uno dall’altro) frammenti di immagini; e li consolida con la costante ripetizione di parole costanti. Ed i frammenti si giustappongono a costruire altri frammenti: frammenti di percezioni, in uno stadio precognitivo.
Così la Donnasullasediaadondolo (proprio perché sta sulla sedia a dondolo) riposiziona, attraverso la sua stessa Voce, la sua immagine al di là di una finestra; e da lì si guarda; e da qui guarda la sua immagine; forse così all’infinito e nell’eterno. Coazione autoscopica, autoacustica. Ma lasciamo da parte le identità: da ricomporre, da riscoprire, da compattare. Beckett ci propone una condizione teatrale di concretezza estrema, assoluta (cioè sciolta da contesti provvisori): una condizione che possiamo richiamare con un avviso esperienziale: quante volte, osservandoci a lungo davanti ad uno specchio, abbiamo finito col perdere la collocazione spaziale dell’osservatore: chi si guarda e chi è guardato? E quante volte, nel sonno/veglia, abbiamo udito la nostra voce che ci ripopolava di parole (non concetti, non immagini compiute: parole)? In noi, però, prevale l’orrore autoscopico e distogliamo lo sguardo; ci assale il panico autoacustico e ci addormentiamo (o ci svegliamo). Ma nella Donnasullasediaadondolo (proprio perché sta sulla sedia a dondolo) orrore e panico non si compongono: vengono tenuti a distanza dal movimento. Delle meraviglie della sedia a dondolo Beckett ci aveva già parlato: cinquant’anni prima di questa pièce, quando ad un’altra sedia a dondolo legò Murphy (protagonista del romanzo omonimo, il primo dell’irlandese). Murphy, però, su quella sedia compiva mirabolanti peripezie mentali: ci parlava, ad esempio, delle funzioni esercitate sulla coscienza e sulla conoscenza dalle condizioni luce/penombra/ombra. Fortunato Murphy a decidere di legarsi sulla dondolo: come altrimenti avrebbe potuto godere delle infinite variazioni del chiarore in passaggi immediati e costanti se non attraverso il movimento di questa macchina? Solo una sedia a dondolo ci consente il massimo del movimento: proprio perché, da sedia, non si sposta! Ma la Donnasullasediaadondolo non accampa pensieri, forse non ha mai letto Leibniz, forse non sa neppure chi sia Duchamp. Non ha deciso di legarsi a quella macchina; non avrebbe consistenza né necessità senza quella sedia a dondolo; fuori dalla macchina bascullante non c’è passato né futuro per lei: lei è irrimediabilmente, teatralmente, percettivamente una Donnasullasediaadondolo. Tante volte ho sentito definire questa pièce “folgorante”: tanto che anch’io mi ero adeguato alla definizione. Oggi, dopo averci lavorato su, con tanto stupore, insieme a Graziana ed Umberto, mi rendo conto di quanto sia deflorante: con la sua essenzialità giunge dove pare nessuno sia giunto mai: a destare (o ridestare) con un’azione teatrale una preconoscenza quasi filogenetica. E, così, attraverso l’assenza di accadimenti fa accadere invece quello che tanti psicanalisti sognano di poter realizzare con i loro pazienti: annullare l’angoscia, l’orrore, il panico (perfino di quella morte evocata nel finale) per realizzare il movimento pulsivo della coscienza: per fare teatro di sé.
scheda dondolo - scheda passi - scheda commedia Passi Footfalls (1975), traduzione di Carlo Fruttero e Franco Lucentini con regia e luci scene e costumi
Passi precede di cinque anni Dondolo. Anche in questo caso l’Autore parte da un immagine; e dall’immagine sgorga una drammaturgia densa e complessa: teatro del vedere che immediatamente si fa teatro del dire. La puntualità (puntigliosità..?) con cui Beckett segue passo passo immagine e parola, con didascalie vincolanti, non è bizzarria formale: è necessità compositiva dell’accadimento scenico.
L’immagine (o meglio sarebbe dire l’apparenza): una donna percorre incessantemente, da destra a sinistra, i nove passi di una striscia larga un metro. Il nome della donna è May, ma potrebbe anche trattarsi di Amy (suo anagramma), o della madre di Amy, missis Winter, o della sua stessa madre: la chiameremo allora semplicemente M -Beckett la chiama così…-. Dapprima M apre il suo percorso (non metaforico, ma concreto percorso lungo la striscia di nove passi) dialogando con una Voce, quella della madre. La Voce, in seguito, assume autonomia: ci descrive M e parla di se stessa in terza persona; forse non si tratta soltanto della Voce della madre di M: potrebbe essere la Voce di missis Winter, o di Amy o della stessa May. E’ preferibile, dunque, chiamarla semplicemente V -come d'altronde fa lo stesso Beckett-. Ed M, nel suo monologo finale, ci parla di una se stessa -forse- in grado di uscire fuori da sé per affrontare un percorso (anche in questo caso concreto, non metaforico) misterico e enigmatico: ed il mistero e l’enigma si compongono dinanzi allo spettatore attraverso una configurazione concreta. Insisto sempre sul termine «concreto» perché la nostra ricerca sugli atti unici beckettiani -e gli allestimenti che da essa conseguono- è proprio basata sulla funzione che l’Autore assegna alla scena, luogo primario degli avvenimenti: ciò che lì accade non ha rimandi simbolici o trasferimenti metaforici: è realtà che si compie davanti agli occhi e attraverso l’ascolto dello spettatore. Come già detto a precedere il nostro allestimento di Dondolo, anche per Passi la percezione -in questo caso possiamo usare ed osare il plurale: le percezioni- è condizione dell’accadimento teatrale e richiesta per la sua fruizione da parte dello spettatore. Anche in Passi, infatti, autoscopìa e autoascolto creano un gioco di specchi e di voci che non tendono a ricreare o ricomporre identità, ma a dare a ciascuna Apparenza o Voce l’unica identità che pertiene e appartiene loro: l’identità teatrale. C’è un intimo segreto tra M e V (e all’interno di M e V; e in MV considerate nella loro inscindibile unità scenica e drammaturgica): un segreto ineffabile come appunto è per sua natura un segreto. E per poterne parlare M e V ed MV (e Beckett con loro, per loro) ricorrono a piani stilistici, narrativi, tematici costantemente diversi tra loro: il dialogo intimo madre/figlia; la descrizione in presa diretta; l’accenno lirico; l’apologo di stampo quasi vittoriano; accenni alla mitografia cristologica; evocazioni di atmosfere gotiche; e su tutto sembra prevalere un immaginario letterario/iconografico mediato dalla Commedia dantesca. E nel passare e ri-passare sulla striscia si compone un ordito: che poi si disfa al successivo passaggio e ri-passaggio. Il personaggio teatrale non esiste più: permane il suo concreto delirio (andare oltre il solco, la lira latina): non malattia mentale ma condizione mentale quando sottoposta a gesti estremi nell’unico luogo che può accoglierli senza doverli codificare: lo spazio della scena.
scheda dondolo - scheda passi - scheda commedia Commedia Play (1962), traduzione di Carlo Fruttero con regia scene
Un comune triangolo: lui, lei, l’amante di lui. Più che comuni le accuse, le recriminazioni, le giustificazioni. Ma lui, lei e l’amante di lui sono rinchiusi ciascuno dentro la propria urna, solo la testa ad emergere; pur presentandosi allo spettatore l’uno accanto all’altro, ciascuno dei tre non s’avvede della presenza degli altri due; rispondendo con riflesso pavloviano allo stimolo di una luce che alternatamente passa dall’uno all’altro, ciascuno racconta la propria versione di questo comune triangolo, quasi si trattasse di un monologo -o di un interrogatorio- ridotto in frammenti.
Sin qui, Commedia potrebbe apparire un esercizio di stile: intrigante, inconsueto, originale, di grande impatto visivo. Ma in Beckett le soluzioni sceniche estreme non sono frutto di fantasie bizzarre, non hanno intento soltanto parodico. Così, dopo aver ottemperato all’obbligo del racconto, ciascuno dei tre personaggi -meglio chiamarli apparenze o sembianze- si rivolge espressamente alla luce/occhio: e con essa dialoga; inveisce contro di essa; la blandisce; alla luce/occhio rivolge domande ancestrali, metafisiche. Lui, lei e l’amante di lui perdono le connotazioni imposte dal triangolo imperfetto che li ha visti congiunti, per rinnovare il disorientamento spaziale, temporale, esistenziale che è proprio del personaggio -apparenza, sembianza- beckettiano: un personaggio che appare proiettato in una affannosa ricerca spirituale che esclude il fideismo e il teismo. E quando la Commedia viene ripetuta lo spettatore percepisce i contorni della desolata tragedia umana. Vengono richiamati alla mente immagini letterarie ed iconografiche della Commedia dantesca -di cui Beckett era estimatore e studioso-. Ma il contrappasso della ripetizione, coatta e infinita, imposta dalla luce/occhio, risulta ancor più penoso da sopportare che qualsiasi condizione dannata, patita nell’inferno dantesco: la luce/occhio è ancor più crudele di un dio vendicativo e offeso. All’interno delle proprie urne -che la nostra visione concettuale e l’ideazione di Umberto Naso hanno trasformato in bozzolo, sorta di seconda pelle, contenitore e contenuto ad un tempo- gli attori/personaggi/apparenze/sembianze invocano il buio come estrema condizione di pace e rasserenamento: ma non riescono a sottrarsi alla pressante richiesta di ripetere, ripetere. E nella ripetizione, le parole si svuotano per lo spettatore di referenzialità, acquistando via via il peso di una purezza dannata. Resta, per noi che abbiamo assunto il carico della rappresentazione e per lo spettatore con noi, soltanto l’effige mimica di un urlo senza suoni che un sorriso stereotipo non riuscirà a stemperare: perché anche quello è un sorriso coatto.
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